Quell’immagine di Ursula Von Der Leyen in piedi, vista da dietro che osserva i due signori seduti alle sedie del potere riconosciuto, è scandalosa ed emblematica.
Sì, è vero, non è poi così sorprendente, ahimè, assistere a un atteggiamento di mancanza di rispetto da parte del presidente turco nei confronti di una donna. Ma quell’immagine rivela molto di più.
Rivela la complicità maschile nell’atteggiamento machista nei confronti di una donna. E non importa se quella donna è Ursula Von Der Leyen, una signora tedesca, laureata in medicina che parla perfettamente inglese e francese, madre di 7 figli, già ministro degli Affari Sociali, già ministro del Lavoro, già ministro della Salute, già ministro della Difesa e a oggi presidente della Commissione Europea.
Non importa nulla di tutto questo.
È innanzitutto una donna a cui è consentito ascoltare la discussione fra due uomini e che dunque deve sedersi di lato, su un grande comodo divano. Lo scandalo di quella scena è la solidarietà fra i due uomini nel non considerare nemmeno il richiamo imbarazzato della Von Der Leyen che di fatto chiedeva “E io dove dovrei sedermi?”.
Entrambi impassibili, tanto il presidente turco quanto il presidente Michel. Così la Von Der Leyen decide di sedersi in quel grande divano quasi fatto apposta per far perdere di vista colei che vi siede.
La verità è che quella scena, scandalosa e inaccettabile, si ripete ogni giorno nella quotidianità di molte donne sul lavoro. Per questo oggi siamo ancor più vicino a Ursula Von Der Leyen perché molte donne si sono riconosciute in quella vergognosa situazione.
E molte donne l’hanno apprezzata per aver avuto il coraggio di quel “uhm..” per mettere in risalto quel gesto irrispettoso, senza nemmeno parlare.
Quell’immagine però io la vedo così: Ursula Von Der Leyen che guardava dall’alto della sua forza, della sua intelligenza ed eleganza, due signori sullo sfondo della scena aggrappati a due comode, importanti poltrone.
Quell’intervista all’Espresso, a tratti scandalosa se sacrilega, fu realizzata 46 anni fa da Franca Leosini
Il tema della questione femminile può sembrare logoro, trito e a molti persino noioso. È la tattica di chi vuole che finisca nel cassetto o nello spazio di discussione fra donne che non sanno come passare il loro tempo. Ad altri appare superata o quasi.
In realtà ha subìto in questi ultimi anni un’evidente regressione, non tanto per quel che riguarda il ruolo delle donne nell’economia e nella società, quanto per la coscienza culturale degli uomini che hanno sulle donne e delle donne su loro stesse. In sostanza, si potrebbe dire che sono falliti due modelli distinti di concepire l’emancipazione delle donne e la parità di genere nella società.
Il primo modello, tradizionalmente di sinistra, presuppone il ruolo determinante dei movimenti politici, il cui successo potrà garantire la perfetta eguaglianza fra i generi. Da questo modello sono nate le “quote rosa” che hanno consentito l’ingresso più massiccio delle donne nelle istituzioni.
Le quote, che hanno certamente dei meriti, non possono essere sottovalutate e vanno mantenute. Ma pur con risultati oggettivi e importanti, la teoria delle quote ha il limite di instaurare un meccanismo che finisce per premiare le donne in quanto tali e non sempre per le loro effettive capacità e qualità professionali o politiche.
La vera emancipazione delle donne avverrà quando non si accontenteranno di ottenere dall’alto, per concessione, ciò che invece possono conquistarsi e devono ottenere soltanto grazie alle proprie capacità e ai propri meriti.
L’altro modello di femminismo, che a mio avviso ha ancor più confinato i limiti del mondo delle donne, è quello rappresentato da una certa cultura cattolica, non solo di stampo conservatrice ma anche progressista e radicale.
Quest’ultimo modello riconosce nella donna un’identità irriducibilmente diversa da quella maschile, una particolarità nel rapportarsi al mondo, alle persone e alle cose. Una specifica attitudine a prendersi cura dell’interiorità, a prediligere una visione del mondo e dei rapporti umani improntata all’unità dell’amore piuttosto che alla conflittualità e al potere fine a sé stesso. Tesi che in realtà nasconde un maschilismo subdolo, un modo elegante per mascherare di fatto un’altra forma di ghettizzazione, persino un’astrazione della donna tenendola lontana dalle questioni concrete maneggiate con destrezza dagli uomini.
La mia convinzione si fonda su un’idea molto più semplice. Un’idea che, pur con differenze di natura, riconosce una fondamentale unicità di comportamenti da parte dei due sessi. Le differenze che oggi si notano, come le diverse attitudini allo studio, sono solo la conseguenza di fattori storici e culturali che per lungo tempo hanno formato il carattere, la coscienza dei due generi.
Quello che oggi è indubbio è ancora la prevalenza maschile nella sfera del potere, sia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa che nel mondo lavorativo, soprattutto se si guarda ai vertici. Le percentuali spesso sbandierate di presenza femminile in politica e nelle aziende non dicono nulla, anzi camuffano una realtà che vede le donne in bassissima percentuale ai livelli dirigenziali, per non parlare del diverso trattamento economico.
Ne cito solo alcune: la presenza delle donne nei consigli di amministrazione che vede l’Italia al secondo posto in Europa con il 36% è solo l’effetto dell’ottima legge sulle quote rosa Golfo-Mosca, ma solo il 5% degli amministratori delegati sono donne (non esistono quote rosa sugli Ad). Un dato sconcertante che la dice lunga sulla parità di genere.
Ho letto con piacere l’intervista alla Senatrice Cattaneo sulla presenza femminile nel mondo del lavoro e delle Istituzioni. Concordo totalmente con lei quando dice che le donne devono conquistarsi spazio per le loro competenze e non in quanto donne.
A proposito della Cartabia, eletta Presidente della Consulta, purtroppo va detto che la sua nomina è stata frutto più di una prassi, che vede nominato Presidente il membro più prossimo alla fine del mandato, che di una libera scelta. Quel che conforta è che nel caso della Cartabia il merito coincida con la prassi.
La Senatrice Cattaneo, che posso onorarmi di chiamare “ex collega” avendo condiviso la scorsa legislatura al Senato, è donna di grandi capacità umane e competenze professionali. Mi si potrà dire “è scontato!”. No, non lo è. Ho potuto constatare il suo impegno, a differenza di altri, nell’adempiere, nonostante il suo oneroso lavoro di ricercatrice, al suo ruolo di Senatrice.
Ho apprezzato molto il suo impegno anche nel cambiare in meglio il rapporto fra le Istituzioni e il mondo scientifico che vede le prime troppo spesso sorde rispetto a fatti scientifici e affascinate da “opinioni non documentate”. Si avrà un salto di qualità nei provvedimenti su alcune delicate tematiche quando le Istituzioni si avvarranno della voce autorevole della scienza.
Riguardo alla testimonianza della Senatrice a vita sulla sua positiva esperienza di donna nel mondo scientifico della ricerca, vorrei aggiungere qualcosa: sono certa delle sue parole e della positività della sua esperienza professionale, ma questo non deve trarre in inganno. Perché la ricerca è bene o male un ramo dell’istruzione, della formazione.
Un terreno culturalmente più fertile per l’universo femminile. Un mondo dominato da donne che fortunatamente si è poi allargato anche al campo scientifico, come nel caso della Senatrice Cattaneo. Ma appena guardiamo ad altri importanti settori come quello economico, dalla finanza all’industria, il mondo che più fa circolare denaro e dunque potere, ahimè i dati sulla presenza femminile, soprattutto ai vertici, crollano. Un vero precipizio.
Questa dunque è la realtà della parità di genere in Italia: una disparità pesante. È qui che bisogna sfondare il muro, partendo dalle donne, come la Senatrice Cattaneo, che sono riuscite in altri settori a far valere le loro competenze per aiutare le donne con altrettante competenze che non riescono a rompere, davvero, quel tetto di cristallo fino ad oggi intatto.
Quando riusciremo a vedere una presenza femminile uguale a quella maschile spalmata su tutti i settori, allora sì che potremo dire di avere sconfitto la discriminazione di genere. Sono certa che tutti, uomini e donne, ne trarremo vantaggio. E, cara Senatrice Cattaneo, vedrà che anche le Istituzioni ascolteranno di più la voce empirica della scienza, lasciando fuori dalla porta le opinioni improvvisate che tanti danni hanno fatto in questi ultimi tempi!
Il tema della questione femminile può sembrare logoro, trito e a molti persino noioso. È la tattica di chi vuole che finisca nel cassetto o nello spazio di discussione fra donne che non sanno come passare il loro tempo. Ad altri appare superata o quasi.
In realtà ha subìto in questi ultimi anni un’evidente regressione, non tanto per quel che riguarda il ruolo delle donne nell’economia e nella società, quanto per la coscienza culturale degli uomini che hanno sulle donne e delle donne su loro stesse. In sostanza, si potrebbe dire che sono falliti due modelli distinti di concepire l’emancipazione delle donne e la parità di genere nella società.
Il primo modello, tradizionalmente di sinistra, presuppone il ruolo determinante dei movimenti politici, il cui successo potrà garantire la perfetta eguaglianza fra i generi. Da questo modello sono nate le “quote rosa” che hanno consentito l’ingresso più massiccio delle donne nelle istituzioni.
Le quote, che hanno certamente dei meriti, non possono essere sottovalutate e vanno mantenute. Ma pur con risultati oggettivi e importanti, la teoria delle quote ha il limite di instaurare un meccanismo che finisce per premiare le donne in quanto tali e non sempre per le loro effettive capacità e qualità professionali o politiche.
La vera emancipazione delle donne avverrà quando non si accontenteranno di ottenere dall’alto, per concessione, ciò che invece possono conquistarsi e devono ottenere soltanto grazie alle proprie capacità e ai propri meriti.
L’altro modello di femminismo, che a mio avviso ha ancor più confinato i limiti del mondo delle donne, è quello rappresentato da una certa cultura cattolica, non solo di stampo conservatrice ma anche progressista e radicale.
Quest’ultimo modello riconosce nella donna un’identità irriducibilmente diversa da quella maschile, una particolarità nel rapportarsi al mondo, alle persone e alle cose. Una specifica attitudine a prendersi cura dell’interiorità, a prediligere una visione del mondo e dei rapporti umani improntata all’unità dell’amore piuttosto che alla conflittualità e al potere fine a sé stesso. Tesi che in realtà nasconde un maschilismo subdolo, un modo elegante per mascherare di fatto un’altra forma di ghettizzazione, persino un’astrazione della donna tenendola lontana dalle questioni concrete maneggiate con destrezza dagli uomini.
La mia convinzione si fonda su un’idea molto più semplice. Un’idea che, pur con differenze di natura, riconosce una fondamentale unicità di comportamenti da parte dei due sessi. Le differenze che oggi si notano, come le diverse attitudini allo studio, sono solo la conseguenza di fattori storici e culturali che per lungo tempo hanno formato il carattere, la coscienza dei due generi.
Quello che oggi è indubbio è ancora la prevalenza maschile nella sfera del potere, sia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa che nel mondo lavorativo, soprattutto se si guarda ai vertici. Le percentuali spesso sbandierate di presenza femminile in politica e nelle aziende non dicono nulla, anzi camuffano una realtà che vede le donne in bassissima percentuale ai livelli dirigenziali, per non parlare del diverso trattamento economico.
Ne cito solo alcune: la presenza delle donne nei consigli di amministrazione che vede l’Italia al secondo posto in Europa con il 36% è solo l’effetto dell’ottima legge sulle quote rosa Golfo-Mosca, ma solo il 5% degli amministratori delegati sono donne (non esistono quote rosa sugli Ad). Un dato sconcertante che la dice lunga sulla parità di genere.