Il tema della questione femminile può sembrare logoro, trito e a molti persino noioso. È la tattica di chi vuole che finisca nel cassetto o nello spazio di discussione fra donne che non sanno come passare il loro tempo. Ad altri appare superata o quasi.

In realtà ha subìto in questi ultimi anni un’evidente regressione, non tanto per quel che riguarda il ruolo delle donne nell’economia e nella società, quanto per la coscienza culturale degli uomini che hanno sulle donne e delle donne su loro stesse. In sostanza, si potrebbe dire che sono falliti due modelli distinti di concepire l’emancipazione delle donne e la parità di genere nella società.

Il primo modello, tradizionalmente di sinistra, presuppone il ruolo determinante dei movimenti politici, il cui successo potrà garantire la perfetta eguaglianza fra i generi. Da questo modello sono nate le “quote rosa” che hanno consentito l’ingresso più massiccio delle donne nelle istituzioni.

Le quote, che hanno certamente dei meriti, non possono essere sottovalutate e vanno mantenute. Ma pur con risultati oggettivi e importanti, la teoria delle quote ha il limite di instaurare un meccanismo che finisce per premiare le donne in quanto tali e non sempre per le loro effettive capacità e qualità professionali o politiche.

La vera emancipazione delle donne avverrà quando non si accontenteranno di ottenere dall’alto, per concessione, ciò che invece possono conquistarsi e devono ottenere soltanto grazie alle proprie capacità e ai propri meriti.

L’altro modello di femminismo, che a mio avviso ha ancor più confinato i limiti del mondo delle donne, è quello rappresentato da una certa cultura cattolica, non solo di stampo conservatrice ma anche progressista e radicale.

Quest’ultimo modello riconosce nella donna un’identità irriducibilmente diversa da quella maschile, una particolarità nel rapportarsi al mondo, alle persone e alle cose. Una specifica attitudine a prendersi cura dell’interiorità, a prediligere una visione del mondo e dei rapporti umani improntata all’unità dell’amore piuttosto che alla conflittualità e al potere fine a sé stesso. Tesi che in realtà nasconde un maschilismo subdolo, un modo elegante per mascherare di fatto un’altra forma di ghettizzazione, persino un’astrazione della donna tenendola lontana dalle questioni concrete maneggiate con destrezza dagli uomini.

La mia convinzione si fonda su un’idea molto più semplice. Un’idea che, pur con differenze di natura, riconosce una fondamentale unicità di comportamenti da parte dei due sessi. Le differenze che oggi si notano, come le diverse attitudini allo studio, sono solo la conseguenza di fattori storici e culturali che per lungo tempo hanno formato il carattere, la coscienza dei due generi.

Quello che oggi è indubbio è ancora la prevalenza maschile nella sfera del potere, sia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa che nel mondo lavorativo, soprattutto se si guarda ai vertici. Le percentuali spesso sbandierate di presenza femminile in politica e nelle aziende non dicono nulla, anzi camuffano una realtà che vede le donne in bassissima percentuale ai livelli dirigenziali, per non parlare del diverso trattamento economico.

Ne cito solo alcune: la presenza delle donne nei consigli di amministrazione che vede l’Italia al secondo posto in Europa con il 36% è solo l’effetto dell’ottima legge sulle quote rosa Golfo-Mosca, ma solo il 5% degli amministratori delegati sono donne (non esistono quote rosa sugli Ad). Un dato sconcertante che la dice lunga sulla parità di genere.

Fonte: www.huffingtonpost.it